Secondo classificato allo skannatoio di Ottobre nonostante i giudizi altalenanti.
Il cuore è
il tallone di Achille
Il sole cominciava a calare sui vitigni che striavano il fianco della collina.
Le ombre degli aranci, delle palme da datteri e degli altri alberi da frutto si
allungavano sul terriccio scuro dei campi sul versante ovest, a ridosso della
modesta casa rurale che dominava il paesaggio.
Athanasios raccolse una melagrana caduta a terra e si riempì la bocca di semi. La
polpa era dolce: il tempo della raccolta era ormai giunto anche quell’anno.
Alzò lo sguardo verso l’edificio di pietra bianca dove la piccola Galene, in un
vestito ocra, alternava pochi passi di corsa scoordinata alla risata che sapeva
sempre sciogliergli il cuore. All’altro capo di quei gridolini divertiti,
Anthia raccoglieva fiori di campo e, di quando in quando, fingeva di inseguire
la piccola che riprendeva a scappare strillando felice.
Athanasios, a quella distanza, non capiva nemmeno una parola di quanto si
stessero dicendo la moglie e la figlia, ma sentiva il cuore colmo di una gioia
quieta e pacificatrice mentre le guardava inseguirsi nell’erba: dopo tanti anni
di sangue, furia e dolore, forse aveva trovato la serenità che, da sempre, ogni
uomo va cercando.
La forza di quel pensiero gli rimbombò in testa, facendovi risuonare un’eco di
scudi frantumati e carni lacerate; anche a occhi aperti poteva vedere quei
volti, sentire le loro vite spegnersi tra le sue mani. Si portò d’istinto i
palmi al volto, ma la visione era già svanita, il dolore evaporato. Scese con
lo sguardo sulle dita e le trovò sporche, ma solo di terra. Un sorriso gli si
aprì sul viso.
Tornò a fissare la sua famiglia e, in un attimo, tutto fu di nuovo perfetto: il
sole morente abbracciava e custodiva il suo tesoro più grande.
Sono lontani i tempi in cui queste mani
erano striate dal sangue incrostato di uomini ed eroi.
«Che buono! Ma chi l’ha cucinata questa delizia?»
sorrise Athanasios, infilandosi in bocca l’ultima cucchiaiata di minestra.
Galene, aggrappata con i gomiti al tavolo troppo alto per i suoi tre anni,
sorrise gioiosa e provò a indicare la madre seduta di fronte a lei: appena
sollevò il braccio dal legno, però, perse l’equilibrio e capitombolò a terra.
«Quante volte ti ho detto di stare seduta composta?» Anthia sbuffò mentre
afferrava sotto le ascelle la piccola per rimetterla a sedere.
Gli occhi della bambina riemersero vispi dal bordo del tavolo e, dopo un attimo
di silenzio, tutti proruppero in una risata.
«Attenta, piccola mia, nemmeno il tuo grande padre può permettersi di
disobbedire alla mamma, altrimenti…» sorrise ancora, mentre la moglie si
portava ironica una ciocca dei lunghi capelli biondi davanti al viso
imbronciato e Galena rideva sguaiata.
«E va bene, ora basta. Tu, signorina, alzati, è ora di andare a letto.» disse
la donna ancora in piedi.
«Ma io voglio stare con papà.»
«Ricordati, principessa, mai disobbedire alla mamma.» l’apostrofò lui.
«Va bene.» rispose mogia la piccola: era così raro che potesse sedersi a tavola
con i grandi che, quando succedeva, era sempre difficile convincerla ad
alzarsi.
Anthia la prese in braccio e sparì rapida su per le scale mentre, da sopra la
sua spalla, Galena regalava a suo padre un ultimo sorriso.
Quando la donna fu di ritorno, Athanasios era ancora seduto al proprio posto e
lei gli si accovacciò dietro, abbracciandolo stretto e poggiandogli la guancia
tra le spalle.
«Sono due giorni che mi trascuri, marito mio, non ti piaccio forse più?»
L’uomo si alzò di scatto dalla sedia e, libero dalla presa della moglie, le
strinse i fianchi con forza, fissandola irritato.
Lo sguardo della donna era languido: lo aveva raggirato un’altra volta.
Athanasios si rese conto che aveva fatto esattamente il suo gioco, ma non si
scompose, anzi, la strinse con ancora più forza, finché le scappò un gemito, quindi
la sollevò di forza e la mise a sedere sul pesante tavolo in legno ancora
apparecchiato.
«Allora mi desideri ancora.» gli ansimò a labbra socchiuse accanto all’orecchio.
«E tu? Tu mi desideri ancora?»
Anthia appoggiò un avambraccio tra
piatti e posate e, con un gesto rapido, gettò tutto a terra.
«Amore mio, fammi sentire che desideri me e solo me.»
Gli cinse il viso con le mani e se lo tirò al petto, guidando le sue labbra
attraverso lo spacco della veste, verso i suoi seni.
L’uomo la afferrò sotto le cosce ambrate e, con il proprio peso, la
costrinse sul tavolo, mentre le mani scendevano verso le ginocchia che si
allargarono docili, incapaci di opporre alcuna resistenza.
Queste mani vogliono solo stringere il
tuo corpo per amare, non più armi per uccidere.
La lancia penetra senza esitazione il
primo nemico, il nemico dietro di lui, e quello dopo ancora. La rabbia mi scorre
bollente nelle vene, mi brucia le carni alimentando se stessa. La sete di
sangue è implacabile, la gola arsa non sa trovare sollievo nel rosso troiano
che scorre a fiumi sul campo di battaglia. Sul volto di ogni uomo in ginocchio
vedo il Suo e i nemici vengono falciati come spighe di grano: ogni mio fendente
miete vite a manciate, ma la Vendetta ne esige ancora, sempre di più,
insaziabile come le cosce delle finte vergini ateniesi.
Un altro affondo, ancora un fendente, un colpo con lo scudo alla gola di un
ragazzo che avrà circa la Sua età. Le mie mani tengono le impugnature con
naturalezza, come fosse il loro unico scopo: annegano sogni e speranze in quel
bagno di sangue alimentato dalla mia cieca ferocia. Vorrei fermarmi, ma so che
non lo farò, almeno fino a quando non l’avrò trovato.
Eccolo, Ettore, le cui mani sono ancora macchiate di Lui, riesco ancora a
vederlo mentre gli strappa la vita dal petto invocando il mio nome.
Mi sfida con lo sguardo e comincia a camminare verso di me. Il campo di battaglia
si apre per farci spazio, nella vana speranza di non incappare nella mia furia.
Sento nel petto un fuoco malsano consumare la mia umanità, il profumo della
morte mi inebria, la memoria di Patroclo consegna a Caronte abbastanza lavoro
per dieci vite.
Nessun troiano vivrà per raccontare ai figli il significato della furia di
Achille.
Ettore tenta un affondo, ma è un semplice umano. È la sua superbia a condannarlo
a morte, quella luce nei suoi occhi che sorride beffarda è come zolfo sulle
fiamme della mia ira. Gli afferro il polso e comincio a torcerlo, cade in
ginocchio in una smorfia di dolore, mentre io, implacabile, con l’altra mano
gli afferro la gola. Le dita penetrano la carne, sento il suo pomo d’Adamo
dibattersi come un pesce morente, il sangue rende tutto scivoloso ma la mia
presa è ferrea: sappiamo entrambi come finirà.
Nel momento in cui il suo cuore si ferma, il mio riprende a battere. Il mondo
torna infine ad assumere dei contorni definiti, dei colori distinti. Lo sguardo
si posa sulla sinfonia di morte che mi circonda: espressioni contratte su visi
senza vita, tutti quegli occhi che mi fissano attraverso il vuoto, le bocche
spalancate in migliaia di assordanti grida silenti.
«Portatemi
una fune! E il mio carro!» intimo ai mirmidoni mentre, dalle mani, mi gocciola
ancora il sangue caldo dell’assassino di mio fratello.
Athanasios scattò a sedere sul talamo, la veste madida di sudore e i
polmoni oppressi da un peso invisibile.
«Amore mio, un altro incubo?»
Doveva aver urlato svegliandosi: Anthia era seduta accanto a lui che lo
guardava con gli occhi sbarrati.
«Già.»
La donna lo tirò a sé poggiandogli la testa sul proprio grembo.
«Vieni qui, raccontami cosa ti turba.»
L’uomo la strinse disperato tra le lacrime, provando a rimanere aggrappato a
quel fragile sogno che era la sua nuova vita. In fondo al cuore l’insana paura
che un giorno non lontano, riaprendo gli occhi, l’avrebbe visto svanire, evanescente
immagine di una felicità effimera insidiata da oscuri presagi.
Ho paura. Come può un uomo combattere il
proprio destino, la propria natura, quando il sangue dalle sue mani non può
essere lavato?
Il sole non era ancora basso sull’orizzonte quando Athanasios decise
che, per quella giornata, aveva lavorato a sufficienza: dopo l’incubo della
notte precedente, gli era rimasta cucita addosso una fastidiosa mestizia, solo
riabbracciare Anthia e Galene gli avrebbe risollevato l’umore.
Si avviò a passo tranquillo attraverso le vigne quando, d’improvviso, la brezza
gli portò alle narici una tenue puzza di bruciato.
Si fermò ad annusare meglio l’aria e un brivido
gli corse lungo la schiena: conosceva bene quell’odore acre, denso, pungente,
lo aveva sentito infinite volte mentre metteva a ferro e fuoco città e
villaggi.
La paura s’impossessò del suo cuore e gli mise le ali ai piedi. Più si
avvicinava a casa, più il lezzo si faceva intenso. Arrivato in cima alla
collina, scorse anche la densa colonna di fumo nero che si levava nel cielo,
strangolando ogni sua residua speranza che non fosse accaduto nulla di grave.
Si precipitò verso casa correndo in linea retta, ignorando sentieri, ostacoli,
salti.
A pochi metri dall’edificio, però, si fermò di colpo: un enorme basilisco di
metallo, lungo quasi quanto l’abitazione, sbucò da dietro un angolo e sputò un
getto di fuoco bianco e intenso, riducendo in cenere tutte le piante del
piccolo orto domestico.
Prima che il mostro riuscisse a scorgerlo, l’uomo fece uno scatto e saltò in
una delle finestre della casa passando attraverso i tendaggi in fiamme della
sala da pranzo. Atterrò sul grosso tavolo in legno che cedette di schianto
facendolo rovinare a terra, strinato e dolorante.
Stava per rialzarsi quando un gelido e appuntito tocco metallico gli sfiorò la
nuca.
«Lentamente, ragazzo, molto lentamente.» gli disse, da dietro le spalle, una voce
profonda e appena sussurrata.
Athanasios si mise in piedi e, con le mani sollevate, si voltò piano.
Sentì un tuffo al cuore quando, nell’individuo di fronte a sé, riconobbe
Odisseo. La stessa espressione sorpresa si dipinse anche sul volto dell’uomo
armato che, riconosciuto l’’amico, abbassò la spada:
«Achille, per Giove, pensavo di essere arrivato
troppo tardi.»
«Non usare quel nome! Da queste parti nessuno sa chi sono. Piuttosto, come mai
sei qui?»
«Mi manda Teti, sono venuto ad avvertirti del pericolo imminente, ma vedo che
il pericolo ti ha trovato prima di me.»
Achille si scostò dal viso i capelli biondi già striati dalla fuliggine
e si accovacciò sul pavimento:
«Che storia è questa? Dov’è la mia famiglia?»
L’amico gli si accucciò accanto e gli mise una mano sulla spalla:
«Apollo ti ha scoperto e, non c’è bisogno di dirlo, non l’ha presa bene. Quella
bestia là fuori se l’è fatta costruire da Efesto in persona, e temo che non si
fermerà fino a quando non ti avrà trovato e ucciso. Il Dio del Sole non è
famoso per la sua misericordia. Gli hai fatto fare la figura dell’idiota, non
puoi biasimarlo se ora brama vendetta.»
«Vorrai dire che gli “abbiamo” fatto fare la figura dell’idiota.» lo corresse
l’amico, subito prima che un’esplosione facesse crollare accanto a loro una
porzione del tetto.
Persino a distanza di anni le mie
mani fremono non appena sentono il profumo della battaglia.
«Odisseo, Patroclo è morto.»
Achille si gettò sui cuscini della tenda dell’amico, il volto scuro e
inespressivo.
«Ho saputo, Achille. Mi unisco a te nel cordoglio per questa perdita. Sei più
di un fratello per me e lui era più di un fratello per te. Vieni, piangiamo
insieme la sua scomparsa.»
«Non ci sono più lacrime da versare in questi occhi, non sento più nulla.
Niente dolore, niente rabbia, niente ardore, nessun desiderio di vendetta. Mi
sento vuoto. Che senso ha tutto questo, Odisseo? Che senso ha? Una guerra per
capriccio, perché un re inetto non ha saputo tenere a freno le voglie della sua
sposa puttana. Ma io non ho visto nessun re greco immerso fino ai gomiti nel
sangue e nelle viscere dei suoi compagni, nessun re a dimostrare il proprio
valore sul campo.»
«Comprendo le tue motivazioni, amico mio, ma dovresti essere più accorto nel
pronunciare tali parole, se ti sentisse qualcuno?»
Achille si alzò in piedi, una scintilla d’odio negli occhi vacui.
«Agamennone sa cosa penso di lui e di suo fratello, se volesse espormi le sue
rimostranze, saprebbe bene dove trovarmi: la mia tenda è nello stesso posto da
dieci anni.»
Il tono dell’eroe dai capelli biondi era secco e deciso, sapevano entrambi
che nessuno avrebbe mai osato sfidare apertamente Achille, nemmeno i re di
tutta la Grecia.
«Perché sei venuto nella mia tenda? Non credo che
sia consolazione ciò che vai cercando, e nemmeno vendetta: ho saputo di Ettore.»
I due si studiarono per qualche istante in silenzio.
«Ho bisogno che tu mi aiuti a morire, Odisseo. Sei l’unico abbastanza
intelligente da riuscire nell’impresa di ingannare uomini, dei e persino
oracoli. Sono stanco di questa guerra, stanco di combattere, stanco di uccidere
e di veder morire coloro che amo. Voglio uscirne, vivere la mia vita in pace e,
lo sai, l’unico modo per farlo è morire.»
Il più astuto tra tutti i Greci osservò muto l’amico per un tempo che a
entrambi parve interminabile, poi si gettò sui cuscini, socchiuse gli occhi e
prese a parlare a voce molto bassa, poco più che un sussurro:
«Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, l’ho
saputo sin da quando venni a Sciro. Ma, amico mio, devi sapere che il prezzo
sarà alto e che il futuro non è mai certo: se dovessimo venire scoperti non ci
sarebbe posto al mondo in cui potremmo nasconderci. Non sto scherzando, Apollo
è il dio della profezia oltre che del sole, le probabilità che ci scopra non
sono basse e, in questa guerra, Poseidone è suo alleato, non potremo sperare di
sentirci sicuri nemmeno per mare. Per non parlare dell’Oracolo di Delphi, ha
predetto la tua morte e, non c’è bisogno di dirlo, sai bene che non può
sbagliare.» si carezzò la corta barba curata mentre meditava sul da farsi: «Tuttavia
un modo forse c’è. Basterà concentrarsi sulla parte della profezia che finora
hai volutamente ignorato, non garantisco sul risultato ma non è che abbiamo
molte alternative. Senza considerare che resta un considerevole rischio per
tutti. A volte è più facile morire per davvero, compiendo il proprio destino.»
Per tutta risposta, il più grande guerriero di tutta la Grecia, lo guardò
fisso, con un’espressione decisa che non lasciava spazio ad alcun ripensamento:
la decisione era presa e il Pelide non sarebbe tornato indietro per nulla al
mondo.
«E sia, ora vattene a dormire, testardo di un mirmidone. Riposati e recupera le
forze, domani dovrai riscuotere più vite che negli ultimi dieci anni, il tuo
compito sarà non lasciare ai troiani altra scelta che rivolgersi agli dei per
ucciderti. Ma, prima di andare sul campo di battaglia, passa di qui, ti farò
preparare dei calzari speciali per l’occasione: diciamo che ti garantiranno una
protezione speciale sul calcagno, so che ti dà qualche problema.» il sovrano di
Itaca rivolse al compare un sorriso complice prima di continuare, «Stanotte
vedrò tua madre, speriamo che i suoi poteri sapranno metterci a disposizione un
cadavere con le tue sembianze, altrimenti il piano avrà fine ancor prima di
cominciare. Va’ ora, ho molti preparativi da approntare e poco tempo per farlo.
Ci vediamo domattina, all’alba.».
Negli occhi scuri di Odisseo balenò un lampo: per quanto conscio dei rischi,
giocare uno scherzo del genere a quelle grandi personalità lo intrigava ed
eccitava come neppure Penelope sapeva fare.
Achille lo ascoltò in silenzio per tutto il tempo, si concesse solo un sospiro
per le vite che avrebbe dovuto ancora reclamare, ma era disposto a qualsiasi
sacrificio per riottenere la propria libertà.
«Grazie, amico mio, ti sarò per sempre debitore, anche se le cose dovessero
andare per il verso sbagliato.»
Odisseo lo guardò esterrefatto: era la prima volta che lo sentiva ringraziare
qualcuno, la sofferenza del suo animo doveva raggiungere abissi sconosciuti ai
normali esseri umani.
Il Pelide uscì dalla tenda a testa bassa, mille voci attorno a lui, ma un unico
pensiero che gli attanagliava le tempie.
Queste mani, fatte per impugnare lancia,
scudo e spada, sapranno mai abituarsi a falcetto, vomere e rastrello?
«Non m’importa nulla, ti ho chiesto dov’è la mia famiglia!»
Odisseo, abbassando lo sguardo, gli indicò con un cenno del capo il piccolo
spiazzo al di fuori della porta, a pochi metri da loro.
Achille ci si avviò titubante e, con la morte nel cuore, aprì gli occhi sul
fronte della casa: tra l’erba bruciata che faceva da contraltare alla pietra
bianca dell’abitazione, due mucchi di carne carbonizzata giacevano inermi. Li
fissò immobile, la paura che fossero davvero Anthia e Galene gli mutò le gambe in
blocchi di granito. La consapevolezza della perdita arrivò quando, attorno a uno
dei due cadaveri, vide la collana d’argento della sua sposa.
La vista gli si appannò e fu come se mille lance gli trapassassero il cuore,
più e più volte, senza pietà. Persino l’aria nei suoi polmoni divenne solida,
troppo pesante da respirare. Sentì anni di sogni e speranze infrangersi come vetro
fenicio su un pavimento di marmo. Vide le schegge sottili delle sue convinzioni
schizzare lontano. Gustò la rabbia che gli colava giù per la gola, calda,
familiare, rassicurante, come una vecchia amica sulla quale sai di poter sempre
contare.
D’un tratto tutto tornò lucido, nitido, chiaro: il suo corpo scattò verso lo
stanzino alla sua destra, i muscoli indolenziti ritrovarono la freschezza e il
vigore dei tempi passati e, con un solo colpo, ne sfondarono la massiccia porta
di legno rinforzato. Al centro del piccolo sgabuzzino, appesi a un elaborato
manichino, la sua lancia e il suo scudo, forgiati da Efesto stesso, splendevano
immacolati. Era come se non fosse passato un singolo giorno senza che li avesse
curati e lucidati.
Li afferrò d’istinto e un brivido gli percorse le membra: le impugnature
lisce si adagiarono docili nei solchi delle sue mani, le dita carezzarono dolci
quegli strumenti di morte che, lo capiva solo ora, gli erano mancati. A ogni
passo, il peso delle armi bilanciava perfettamente i suoi movimenti: erano
finalmente tornati in perfetto equilibrio, come non riuscivano a essere da
tanto, troppo tempo.
Si sentiva come se stesse camminando per la prima volta dopo anni.
Odisseo, dall’altra parte della stanza, allungò una mano verso di lui:
«Achille, fermati, quel mostro l’ha forgiato
Efesto, non puoi scalfirlo con armi mortali. Ti farai ammazzare.»
Ma l’eroe, in preda all’ebbrezza del ritrovato senso della propria esistenza,
era già volato fuori dalla porta ad ampie falcate: tutto, nei suoi movimenti,
trasudava una perfezione letale, come un felino che, elegante, si prepara al
massacro.
Nel giardino, il basilisco di metallo si era alzato sulle zampe posteriori: era
accorto del semidio che gli si faceva incontro. Voltò il capo verso di lui e,
senza esitare, gli sputò addosso una cascata di fuoco bianco. Un istante prima
che le fiamme lo raggiungessero, lo scudo si alzò e, senza che il guerriero
rallentasse la sua corsa, il metallo divino si accese e disperse le fiamme nelle
quattro direzioni senza riportare il minimo danno. Il mostro soffiò ancora due
volte, ma l’effetto fu il medesimo: Achille continuava ad avanzare imperterrito
in linea retta verso di lui, a ogni passo si faceva sempre più basso sul
terreno, i muscoli tesi e pronti al balzo.
Non appena l’eroe fu alla distanza giusta, il basilisco si abbassò e cercò di
afferrarlo con le zampe anteriori. Il semidio, tuttavia, sembrava aspettare
solo quel momento: senza deviare dalla propria traiettoria, scagliò la lancia
che, volando tra gli artigli della creatura, le si conficcò in gola, penetrando
le bande di metallo con violenta precisione. L’impatto sollevò di nuovo la
bestia sulle zampe posteriori mentre, in un goffo e scoordinato tentativo di
mantenere l’equilibrio, prese a mulinare le braccia.
Achille non si lasciò sfuggire l’occasione: spiccò un salto sovraumano e si
avventò sul collo del basilisco, proprio dove spuntava il manico della lancia,
colpendolo con tutto il proprio slancio. Vide il metallo penetrare ancora più a
fondo e, mentre la creatura perdeva anche quel briciolo di stabilità che le era
rimasto, sentì la punta dell’arma cozzare contro qualcosa di rigido e in movimento.
L’impatto di quella massa di ferro contro il suolo, aggiunta al peso dell’eroe,
diede il colpo di grazia all’anima metallica del mostro che cedette di schianto
spezzandosi a metà.
Il guerriero estrasse l’arma e uno strano liquido nero, denso e viscoso,
cominciò a zampillare dalla ferita imbrattando tutto nel raggio di una dozzina
di braccia.
Odisseo, fermo sulla porta della casa in fiamme, lo fissava sbalordito:
«Un solo colpo. Spero di non dovermi mai scontrare con te, Achille di Ftia.
Inoltre si dice che tu ti fossi liberato della lancia di Efesto.»
«Mi credevi così pazzo da scagliarmi contro quel gigante con una normale lancia
di bronzo?»
Il re di Itaca percepì il tono serio dell’amico e la risposta affermativa gli
morì in gola.
Pochi passi e il guerriero recuperò anche lo scudo, poi, ancora tremante per la
frenesia, aprì i palmi e prese a fissarli con feroce rassegnazione.
No! Destino di queste mani è bagnarsi nel
sangue, quello dei nemici come delle persone che amo.
Gli occhi di ghiaccio risaltavano quieti dalla maschera di sangue nero che il
basilisco aveva dipinto sul suo volto, la calma omicida che ne traspariva
incuteva più timore del mito che da sempre circondava il nome di Achille: il
più temibile guerriero della storia.
Il suo sguardo si perse in quello del compagno, acuto e furbo come sempre e i
due non ebbero bisogno di parlare per comprendere l’uno le ragioni dell’altro. Odisseo
poggiò la mano sulla spalla dell’amico e prese un respiro profondo:
«Il tuo dolore è il mio dolore, fratello. E non
chiedere, certo che mi avrai al tuo fianco in quest’impresa: è una cosa che
abbiamo cominciato insieme, insieme la finiremo.»
Si strinsero gli avambracci in segno d’intesa, poi Achille si voltò e cominciò
a camminare verso il sole morente.
«Non tributi gli onori funebri alla tua famiglia? Sai che, senza obolo, Caronte
non traghetterà mai le loro anime attraverso l’Acheronte.»
«Non voglio che lo faccia, dopo che avrò finito con Apollo andrò a riprendermele…»
«E sarà comodo che non si trovino nei domini di Ade, capisco.» Odisseo si morse
la lingua per non averci pensato da solo.
Il biondo eroe di Ftia, come colto da una folgorazione, si fermò di colpo e,
con aria interrogativa, si rivolse di nuovo all’amico:
«Come ha saputo del nostro inganno?»
«L’Oracolo di Delphi. Ha predetto che se il mai morto Pelide Achille, legittimo
re dei Mirmidoni, fosse giunto incolume al solstizio d’estate, avrebbe
distrutto il Sole dell’Arte. O qualcosa del genere. Si dice che Apollo abbia
riso in un primo momento ma, lo sai, l’Oracolo di Delphi non sbaglia mai, ha
dovuto credergli.»
«Con me ha sbagliato già una volta.» rispose Achille con un’espressione seria.
«Devi augurarti che non si sbagli questa volta!» ribatté Odisseo.
«Già. Quindi mancano solo ventuno giorni, poi avrò la mia vendetta.»
«Sempre che tu riesca a rimanere vivo tanto a lungo.»
L’eroe sorrise, pregustando il momento in cui la sua lancia si sarebbe infilata
nel cuore del dio.
Si allontanarono a passo spedito dalla casa ancora in fiamme, il cui tetto finì
di crollare in uno schianto, contornato dallo scoppiettio ininterrotto del rogo.
Nessuno dei due si voltò: continuarono a camminare, decisi a lasciarsi il
passato alle spalle.
Gli eroi hanno bisogno di imprese da compiere e loro si erano appena imbarcati
nella più pericolosa che il genere umano avesse mai conosciuto.
Vedremo come staranno le mie mani,
immerse nel sangue di un Dio.