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sabato 22 settembre 2012

Controllo Mentale 1.0




Controllo mentale 1.0

In radio c’è anche un gallo
In radio c’è anche un gallo
E il gallo corococò


- Cos’è ‘sta merda? Dai cazzo, levala prima che mi girino le palle.
Non rispose, si limitò a guardarmi con il suo solito musetto sbarazzino da “marachella in progress”.

In radio c’è un tacchino
In radio c’è un tacchino
Il tacchino glugluglu


- Clo, tira via sta roba! Ti rendi conto che hai tolto “love me two times” per mettere ‘sto schifo?
Cominciò un balletto stupido, scimmiottando gli animali sullo schermo. La guardavo divertito mentre, seduto sul divano, avevo ormai smesso di tentare di leggere un po’. La amavo quando faceva la scema, mi ricordava quando eravamo ragazzini e ogni motivo era buono per fare gli sciocchi e finire avvinghiati, storditi da quelle sensazioni che ancora non sapevamo decifrare.

In radio c’è un piccione
In radio c’è un piccione
Il piccione trruu


- Uffa, fare la ruffiana non mi farà cambiare idea. Sono irremovibile.
Ma lei non mi ascoltava, gattonava languida verso di me come non faceva da tanto, troppo tempo. Scuoteva la testa come la ragazza nel video degli white snakes, come si può resistere a una tale valanga di sensualità rock?

In radio c’è anche un gatto
Inradio c’è anche un gatto
E il gatto miaoo

- Clo, dai…
Ormai era arrivata da me. Inarcò la schiena e avanzò lenta, strusciando i suoi seni sulle mie cosce mentre, con la bocca socchiusa, sfiorava il tessuto dei jeans, proprio sopra la patta. Avanti e indietro, ancora avanti e poi indietro. Come un’onda seguita dalla risacca, si strusciava su un bagnasciuga che si faceva sempre più duro. Miagolò, e fu il colpo di grazia.

In radio c’è anche un cane
In radio c’è anche un cane
E il cane bau bau


- Clo, se fai così io…
Mi guardò con quella dolcezza erotica che mi faceva impazzire e, finalmente, le sue mani si appoggiarono sul mio corpo: sentii le sue unghie correre veloci giù per la mia schiena e aggrapparsi con forza alla cintura, mentre la mia volontà crollava, pezzo dopo pezzo, distrutta dai brividi che mi scuotevano il corpo e dal fragore con cui il profumo della sua pelle mi esplodeva nelle narici.

In radio c’è un agnello
In radio c’è un agnello
E l’agnello beee


- Clo…
Scese con le labbra nuovamente sulla patta e afferrò con i denti la linguetta della lampo. Cominciò a tirare piano, la lieve pressione del tessuto mi faceva pulsare il membro come volesse esplodere, sentivo ogni singolo scatto della cerniera come un colpo d’accetta sulla già sottile fune del mio autocontrollo. Ero al limite.

In radio c’è una mucca
In radio c’è una mucca
E la mucca mooo


-…
Mi slacciò veloce la cintura e liberò la mia virilità scostando i boxer. Ero teso allo spasmo, avrei voluto reagire, sdraiarla sul tappeto e prenderla con forza. Ma avevo troppa paura di rompere l’incantesimo e il mio corpo sembrava rispondere più a lei che a me.
Si alzò in piedi lentamente, espirando dalla bocca ancora socchiusa. I nostri corpi scorrevano l’uno sull’altro, solo un sottile strato di seta separava la sua pelle dalla mia. I capezzoli spingevano arroganti sulla vestaglia mentre mi passavano a millimetri dal viso, sembravano volerla strappare, puntare le mie labbra. Io avrei voluto baciarli, succhiarli, morderli, sentirla gemere.

In radio c’è anche un toro
In radio c’è anche un toro
E il toro muuu


Non riuscii a far altro che smettere persino di respirare.
Lei si girò di schiena e sporse i fianchi verso il mio volto fino a lambirmi la bocca con il risvolto della vestaglia. Il tessuto leggero le cadeva morbido sulle natiche delineando quelle forme che incarnavano tutte le mie voglie. La vidi piegarsi in avanti e scendere con lo sguardo su di me, così inequivocabilmente pronto per lei. Si slacciò la vestaglia e si inarcò quel poco che bastò a farla scivolare lentamente a terra. Le sue grazie si schiusero d’innanzi ai miei occhi, sentii il profumo della sua eccitazione pervadere l’aria e annichilire le mie percezioni: tutto il mondo era racchiuso in quei pochi centimetri di aria tra i nostri desideri.
Non potevo resistere oltre, dovevo averla, subito.
Mi prese le mani e se le poggiò sui fianchi, la osservai scendere su di me, a ogni millimetro sentivo amplificarsi la mia voglia di lei, sempre di più. Quando, infine, i nostri sessi si sfiorarono, ebbi un sussulto, lei si alzò lievemente e poi riscese, fino ad appoggiarsi appena. Tutto il mio corpo era teso, ero così vicino, eppure ancora così lontano: non desideravo altro che lei si lasciasse andare, il peso avrebbe fatto il resto.
Tremavo.

Il trattore brum
Il trattore brum
Il trattore brum
E il pulcino splash. Oh oh.

La canzone finì e Clo si alzò di scatto. Si girò verso di me e, afferrandomi dietro la nuca, spinse il mio viso verso il suo ventre, come a volermi far sentire quanto anche lei fosse eccitata. Poi si staccò, brutalmente, e fece qualche passo indietro, verso la televisione. Lentamente spostò il cursore sul tasto “replay” del video di youtube e mi guardò maliziosa con il dito sul telecomando, pronta a far ripartire la canzone, se solo io gliel’avessi chiesto.
Quella maledetta, mi era completamente uscita di mente la scommessa. I miei propositi di fermezza e inflessibilità non furono nemmeno formulati.
- Sì, falla ripartire e, anzi, metti il “repeat”.

In radio c’è un pulcino
In radio c’è un pulcino
Il pulcino pio
Il pulcino pio
Il pulcino pio
Il pulcino pio


Lei mi si avvicinò ancheggiando e si inginocchiò tra le mie gambe. Mi prese dolcemente con la mano e mi guardò dal basso verso l’alto: sapeva che lo adoravo, era il mio “premio” per essere stato così remissivo.
- Te l’avevo detto che mi avresti implorato di metterla. Ma ora vediamo cosa si può fare con questo bel signorino, mi hai fatta aspettare abbastanza.

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giovedì 20 settembre 2012

Intrighi di Giada



Intrighi di Giada

I passi delle due guardie armate echeggiarono nel corridoio sempre più flebili man mano che si allontanavano. I coni di luce delle torce tascabili, ormai spariti dietro l’angolo del corridoio,  gli lasciarono negli occhi la sensazione che il buio fosse più impenetrabile di quanto gli fosse parso fino a poco prima.
Si calò piano dall’angolo del soffitto nella cui ombra aveva trovato riparo: il sottile strato di cuoio gommato non emise alcun suono quando, dopo un salto di cinque metri, tornò a toccare terra.
Riprese a muoversi rapido tra i corridoi, lungo il percorso che aveva imparato a memoria: secondo i suoi calcoli avrebbe dovuto incrociare ancora una volta la ronda numero quattro, ma non successe.

-Vieni, figlio mio, siedi con me.
Il vecchio capo villaggio, barricato nel suo kimono più pesante, indicò al ragazzo un basso tavolino al centro del cortile innevato. La coltre bianca attutiva persino i pensieri, che parevano sussurrati come parole di un amore proibito. Solo il rumore di una canna di bambù che, riempita dalla cascatella sotto la quale era situata, si svuotava battendo con regolarità su una pietra, ricordava a quel posto immobile l’esistenza del tempo.
-Hai.
Il giovane prese posto alla destra di suo padre dopo avergli tributato un inchino profondo e attese che la ragazza, fino a quel momento invisibile alle loro spalle, gli versasse del tè.
I due stettero a lungo in silenzio a contemplare la perfetta imperfezione della natura artificiale che li circondava, concedendosi solo di quando in quando un breve sorso dalle tazze in ceramica decorata, usate perlopiù per tenere calde le mani.
-Il consiglio si è riunito questa mattina. Abbiamo deciso che il tempo per riportare a casa il Pettine di Giada, simbolo del nostro clan, è ormai giunto.
Il vecchio fece un altro piccolo sorso e appoggiò la tazza: silenziosa come la neve su cui si muoveva, la ragazza la riempì nuovamente e tornò veloce alla distanza che le era concessa.
-Hai.
-È stato deciso che sarai tu a occuparti del recupero.
Una smorfia si disegnò sul volto del ragazzo: quella decisione lo riempiva di orgoglio e disgusto al tempo stesso.
-Hai qualche perplessità riguardo il tuo compito?
-No padre. Mi chiedevo solo chi avesse proposto me per un incarico tanto importante e-, fece una lunga pausa,-tanto lontano.
Un sospiro profondo precedette la risposta dell’anziano:
-Sai bene che le decisioni del consiglio non hanno nome, né volto. Mi manchi di rispetto con la tua arroganza.
-Perdonate, padre. Non era mia intenzione.
-Partirai al tramonto! Ora va’, raggiungi Matsumoto nella sala della guerra, ti aggiornerà sui dettagli.

-Il Taj-Mahal? - Han strabuzzò gli occhi,-stai scherzando?
Matsumoto rise mentre aprì sul tavolo una serie di rotoli con le mappe del palazzo.
-Non essere precipitoso, la sicurezza è meno intensa di quanto si possa pensare. Saranno altre le tue preoccupazioni in questa missione.
Han incassò il colpo, era giovane, ma era il miglior ninja del più importante clan del Paese: i Murasaki.
-Quali?- rispose freddo.
-Prima o poi dovrai cominciare a interessarti di politica, Han, un giorno sarai capofamiglia. I clan non portano a termine i loro affari con kunai  e shuriken, ma con lingua e cervello.
-Le lingue si tagliano, i cervelli si infilzano. Questa è tutta la politica che mi serve.
-Ringrazia che non ti abbia sentito tuo padre. Ora taci e ascolta!- il tono di Matsumoto non ammise repliche: Han si sedette accanto a lui osservandone le mani che si muovevano rapide sui disegni, mentre le sue parole lo riempivano di informazioni.
Dopo più di tre ore, il ragazzo aveva quattro pagine di taccuino fitte di appunti sull’edificio e i sistemi di sicurezza.
-Incredibile che un edificio come il Taj sia così poco sorvegliato.
-Perché il maggior valore ce l’ha l’edificio stesso e, sai, ho come l’impressione che sarebbe oltremodo difficoltoso rubarlo.
L’atmosfera tra i due si era molto distesa durante il briefing, parlare della parte operativa della missione li aveva messi subito d’accordo.
-Grazie dei consigli, Matsumoto-san, a presto.
-Han, aspetta, non sottovalutare i risvolti politici della missione. Se qualcosa dovesse andare storto, ci sarebbero famiglie pronte a scattare come serpi contro il nostro clan. Stai molto attento a che tutto vada per il verso giusto.
-Hai.- rispose sbuffando Han, prima di sparire.
-Una volta c’era più rispetto!- sorrise Matsumoto, tornando all’interno.

L’ombra avvolgeva l’uomo dietro il grosso tavolo in legno: solo il lieve cigolio della sedia su cui poggiava rassicurava sulla sua effettiva presenza. Di fronte a lui, Hanzo Mitsushi e Shito Nakamura, capifamiglia degli omonimi clan, sedevano impettiti aspettando una sua parola.
-I preparativi in India sono a buon punto?
Il tono grave dell’uomo scandiva ogni parola: solo un lieve tremolio nella voce tradiva la tensione che anche lui doveva provare.
-Sì, sarà tutto pronto per dopodomani notte, in linea con i piani, non c’è nulla di cui preoccuparsi.
Rispose Nakamura d’un fiato, il ginocchio destro gli tremava vistosamente, se lo afferrò con la mano per mascherare il nervosismo.
Nel buio, un sorriso invisibile si disegnò sul volto dell’uomo: gli piaceva che i suoi sottoposti o, come preferivano essere chiamati, “collaboratori” lo temessero.
-E in seno al consiglio? È stato tutto predisposto come ho ordinato?
-Al momento opportuno, tutti i capiclan sapranno da che parte schierarsi. Mi sono personalmente assicurato che Murasaki non sospetti nulla.
Mitsushi pareva più calmo del suo parigrado: era famoso per saper mascherare bene le proprie emozioni e si stava rivelando una pedina molto utile nello scacchiere dell’uomo nell’ombra.
-Perfetto. Avete agito bene. Prima dell’alba partiremo anche noi per l’India, voglio che voi, i miei più fidi e importanti collaboratori, siate al mio fianco nel momento di questa vittoria. Una nuova era sta per nascere, avrete il privilegio di esserne testimoni.

Incastrò la capsula argentata sul piano del piccolo cingolato elettrico, grosso non più del suo pollice. Si stupiva sempre di quanto fosse stata radicale, negli ultimi anni, la trasformazione dei loro mezzi e delle loro risorse: la tecnologia, un tempo ripudiata in nome delle tradizioni, era diventata uno dei loro maggiori punti di forza. Controllò col GPS che il piccolo trasporto fosse nel punto giusto, poi fissò l’orologio proiettato sullo schermo interno delle lenti oculari, aspettando il momento giusto per avviarlo.
In un lieve ronzio, il cingolato si mise in moto, guidato attraverso i corridoi bui del grande Taj dal chip programmato con il percorso da seguire per arrivare alla camera funebre. Han lo osservò sparire nell’oscurità, sorrise. Fece un respiro profondo e corse nella direzione opposta: era in anticipo di una dozzina di secondi sulla tabella di marcia, ma non c’era comunque tempo da perdere.

Tre SUV neri si fermarono a qualche centinaio di metri dal palazzo. Attraverso i parabrezza oscurati, la costruzione sembrava fluttuare nel vuoto, stagliando la sua magnificenza verso il cielo e affondando le proprie radici nel nulla. All’interno dei veicoli, i tre uomini aprirono la comunicazione attraverso gli auricolari.
-Nakamura, Mitsushi, mi sentite?
-Sì, io sento bene.
-Anche io.
Le loro voci rimbalzavano attraverso i microfoni, permettendo loro di conversare come fossero seduti l’uno accanto all’altro.
Dentro il veicolo centrale, l’uomo nell’ombra aprì una piccola borsa e ne estrasse un tablet. Osservò lo schermo nero, su cui era ricalcata in verde la pianta di un’area del Taj-Mahal, su cui lampeggiava una dozzina di statici punti gialli. Le mani dell’uomo si mossero rapide sullo schermo spostando e ingrandendo la mappa, fino a quando vide, intermittente e in movimento, un punto rosso diretto verso la camera funebre.
-Manca poco, godetevi lo spettacolo.
I suoi occhi seguirono trepidanti il movimento del localizzatore rosso, lo guardarono avvicinarsi sempre più all’obiettivo. Un’ondata di emozioni lo percorse da capo a piedi.
Dopo un minuto lungo un’eternità, il puntino raggiunse finalmente il centro della stanza: si trovava proprio d’innanzi al sarcofago della regina. L’uomo chiuse gli occhi immaginando la scena: Han era sicuramente lì, magari stava già sollevando il coperchio, tronfio e spavaldo come sempre.
Sorrise, era impossibile trattenere la gioia: allungò la mano verso lo schermo, trattenne il fiato e toccò il riquadro azzurro nell’angolo in basso a destra.
Il segnale satellitare impiegò pochi istanti a raggiungere i detonatori delle dozzine di dispositivi a impulsi sparsi per tutto l’edificio, istanti in cui il mondo intero parve fermarsi, tributando il giusto rispetto a un momento tanto importante.
Un lampo blu si accese nel palazzo, proiettando per un istante nel cielo le forme degli arabeschi forati delle cupole. L’onda d’urto e lo spostamento d’aria arrivarono immediatamente a investire anche i tre veicoli che tremarono sugli ammortizzatori. Infine li raggiunse anche il rumore, un ronzio robotico assordante, ultimo preambolo al più magnifico spettacolo di distruzione mai visto: la frequenza degli impulsi, entrando in risonanza con il marmo delle colonne, le aveva disgregate, rendendole null’altro che dei cumuli di sabbia candida. Senza più alcuna struttura portante, in pochi attimi l’intero edificio collassò su se stesso, implodendo in una cascata di pietra e polvere.
-Addio, Han, non mi eri mai piaciuto.
Sussurrò compiaciuto l’uomo nell’ombra prima di scoppiare in una liberatoria e fragorosa risata. Le lacrime di gioia gli sgorgarono copiose dagli occhi mentre, a ogni singhiozzo, sentiva la felicità esplodergli nel ventre come poderosi colpi di timpano.

Le risate gli morirono in gola quando, appena fuori dal finestrino, sentì risuonare una voce fin troppo familiare.
-La morte ti diverte, traditore?
Il vetro esplose in mille frammenti sotto il pugno di Han che, rapido e preciso, diresse la lama del kunai a recidere la cintura di sicurezza. Prima che questi potesse reagire, con l’altra mano lo afferrò per l’orlo del kimono e, con forza, lo tirò fuori dal finestrino scaraventandolo a terra. In un attimo fu sopra di lui, la lama della spada a carezzargli la gola, pronta a dissetarsi con quel sangue infame.
Lenti e ritmati, dei passi risuonarono nell’erba: l’uomo dell’ombra alzò lo sguardo e vide avvicinarglisi Hayao Murasaki, le mani nascoste all’interno dell’abito e un’espressione grave dipinta sul volto. Accanto a lui Hanzo Mitsushi, appena sceso dal SUV lì accanto.
Il vecchio Murasaki si fece più vicino all’uomo a terra e, con un gesto rapido, gli sollevò il capo per guardarlo in faccia:
-Matsumoto, il mio più fidato consigliere. Non ci volevo credere, persino ora che ti vedo in faccia e ne ho le prove non mi capacito del tuo tradimento. Uccidere mio figlio, macchiare me dell’onta del fallimento e far ricadere sulla famiglia la responsabilità dell’attentato. Sei un uomo senza onore e come tale morirai. Han.
Il giovane ninja infilò a forza la spada tra le labbra del condannato, l’acciaio stridette strisciando sui denti serrati ma, alla fine, con un gesto rapido e preciso, la lama recise la lingua e parte delle labbra. Si alzò in piedi e gli trafisse il cranio infliggendogli il colpo di grazia.
-Le lingue si tagliano, i cervelli si infilzano.- sussurrò rinfoderando l’arma.
-Figlio, assicurati che Shito Nakamura plachi sul nascere ogni suo desiderio di fuga, lo porteremo davanti al consiglio e lì risponderà dei suoi crimini, senza sconti. Si torna a casa.

La primavera era sbocciata nel cortile di villa Murasaki, il profumo dei gelsomini pervadeva l’aria e i petali dei peschi in fiore tingevano il tutto di un rosa immacolato. Il canto degli uccelli era scandito ancora una volta dalla canna di bambù che, dal centro di una delle cascatelle del ruscello, si svuotava ritmicamente battendo sulla pietra. Al basso tavolino nel centro dello spiazzo in pietra bianca, sedevano, l’uno accanto all’altro, Hayao Murasaki e Hanzo Mitsushi: sorseggiavano lenti il tè, accompagnati l’uno dal figlio Han e l’altro dalla figlia Sayuri, tutti avvolti nei lunghi kimoni tradizionali della festa dei fiori.
-Mitsushi-sama, vi ringrazio di aver accettato il mio invito, conosco l’entità degli impegni che gravano sulle vostre nobili spalle.
-L’occasione era importante, Murasaki-sama. Questo sarà ricordato come un giorno storico nel nostro grande Paese.
I due capiclan non avevano fretta di esaurire i convenevoli, che i patriarchi delle due più influenti famiglie di tutto lo stato si sedessero da amici allo stesso tavolo, era una cosa che non succedeva da più di duecento anni. Le tradizioni andavano rispettate.
-Voglio cogliere una volta ancora l’occasione per ringraziarvi di aver salvato l’onore e la sorte della mia casa, Mitsushi-sama. Se non fosse stato per la vostra integrità, la vipera che cresceva nel nostro grembo ci avrebbe avvelenati a morte. Mi sento in debito con voi.
-Le nostre famiglie sono rivali da più di mille anni, ma mai si sono affrontate senza onore: conosco il rispetto che portate per i miei antenati perché io nutro lo stesso per i vostri. Non ho salvato il vostro onore, ho solamente preservato il mio, non mi dovete nulla.
Si rivolsero a vicenda un inchino prima di fare un altro sorso di tè, a conferma che avevano ognuno apprezzato le parole dell’altro: si poteva proseguire.
-Amico mio, - continuò Murasaki, - credo che i nostri ragazzi fremano per conoscere il motivo della loro convocazione. Vuoi farmi l’onore di spiegare loro la situazione?
-Hai. Han, è cosa nota che tu sia un guerriero forte e rispettato. Mia figlia Sayuri ha ormai raggiunto l’età giusta per prendere marito. Per cementare la nuova alleanza e l’amicizia che dovrà, d’ora in avanti, regnare tra le nostre grandi famiglie, io e Murasaki-sama abbiamo deciso che, al termine della primavera, voi due vi sposerete, così che i nostri clan siano legati dal più forte dei vincoli: il sangue. Che questo matrimonio sancisca l’inizio di una nuova era per noi e per tutto il nostro glorioso Paese.
-Hai parlato bene, Mitsushi-sama. A questo proposito, credo che mio figlio abbia un dono con cui omaggiare la sua futura sposa. Han.
Il giovane si alzò in piedi e si inginocchiò di fronte al padre della ragazza, si profuse in un profondo inchino, arrivando a lambire il terreno con la fronte. Senza sollevarsi, allungò le mani sopra il capo porgendogli un cofanetto di legno scuro. L’uomo lo prese e, aspettato che il ragazzo si fosse rialzato, lo ringraziò con un inchino appena accennato. Appoggiò poi il cofanetto sul tavolo e lo aprì. Sgranò gli occhi quando i tenui raggi del sole si rifletterono sugli intarsi in madreperla del Pettine di Giada. Alzò lo sguardo pieno d’orgoglio verso l’altro capofamiglia:
-Ci avete dimostrato il massimo rispetto possibile, d’ora in poi non vi considereremo nostri amici, sarete per noi dei fratelli,- spostò gli occhi su Han,-sarete per me dei figli.
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